La pioniera dell’automobile inventrice dello specchietto: 

Dorothy Levitt

“Specchio specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?” si domandava la matrigna di Biancaneve mentre era intenta a rimirare il suo volto davanti a uno specchio per dar sollievo alla sua vanità. Era il 1812 e la fiaba dei fratelli Grimm iniziava a diffondersi in Europa, raggiungendo in breve tempo una notorietà inalterata fino ai giorni nostri. A rimanerne conquistata, qualche decennio più tardi, anche una bambina inglese che, divenuta adulta, sull’onda di quelle parole ebbe un’idea che avrebbe avuto un successo epocale: lo specchietto retrovisore.

Lei si chiamava Dorothy Elizabeth Levitt e merita un ritratto nella galleria delle donne che hanno fatto la storia dell’automobile. Come June Mc Carroll, l’inventrice della linea di mezzeria, della quale vi avevamo già parlato.

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specchietto

Perché lo specchietto retrovisore è un elemento fondamentale per la guida in quanto sinonimo di sicurezza. Attraverso le immagini che ci propone nell’abitacolo, è possibile conoscere in tempo reale, mentre siamo al volante, che cosa sta accadendo alle nostre spalle e capire quando sia il momento giusto per prendere una decisione, come un sorpasso o l’uscita in retromarcia da un parcheggio, senza mettere a repentaglio l’incolumità nostra e degli altri automobilisti.

Certo, la sempre più massiccia tecnologizzazione delle vetture, si pensi per esempio alla telecamera posteriore, oggi facilita oltremodo questo tipo di operazioni. Però, per almeno un secolo, l’unico prezioso alleato del guidatore era questo piccolo vetro rettangolare che alla sua inventrice balenò nella mente nel 1909, durante la stesura del suo The Woman and the Car: a chatty little handbook for all women who motor or who want to motor (“La donna e l’automobile: un libricino ciarliero per tutte le donne che sono motorizzate o che vogliono esserlo”), nel quale espose consigli e suggerimenti per le donne che ambivano a cimentarsi da sole alla guida. E in qualche modo la vanagloria della matrigna di Biancaneve ebbe il suo peso. Perché mentre teorizzava che “Una donna al volante non dovrebbe mai fare a meno di un piccolo specchietto per guardarsi alle spalle, la Levitt pensava allo specchietto da trucco che portava sempre con sé, anche quando era col piede sull’acceleratore, per assicurarsi la perenne impeccabilità del suo maquillage.

Ma nella sua invenzione ci fu molto più che vanità. Perché fino a quel momento Dorothy Levitt aveva maturato un’esperienza sterminata con le automobili al punto da essere considerata una pioniera del settore e soprattutto dell’emancipazione femminile, se si pensa come all’inizio del Novecento la società fosse governata da pregiudizi e disparità secondo le quali la guida, oltre che per i più abbienti, era un’esclusiva maschile. Lei ebbe il merito di rompere questi schemi grazie alla sua passione alla sua determinazione.

Nata il 5 gennaio 1882 nel quartiere londinese di Hackney, Dorothy Levitt proveniva da una famiglia facoltosa di origine ebraica, impegnata nel commercio del tè e dei gioielli. La scintilla per i motori scoppiò all’inizio del secolo successivo, quando lavorava come segretaria per la fabbrica automobilistica “Napier&Son”. Pare che fu il suo datore di lavoro, sia per esigenze commerciali che per un’effettiva necessità aziendale, ad averla convinta a imparare a guidare. La diretta interessata si rivelò motivata e soprattutto veloce nell’apprendimento. Tanto che con una vettura della sua azienda nell’ottobre del 1903 vinse la sua prima corsa, la “Southport Speed Trials”, per la categoria riservata ai mezzi dal valore compreso tra le 400 e le 550 sterline.

Fu una notizia sensazionale, per la prima volta una donna superava gli uomini in un settore e in una società maschilista, e non fu episodica. Perché nell’edizione del 1904 la Levitt ripeté le sue performance, aggiudicandosi altre due medaglie. Tempo dodici mesi e stabilì il record sulla distanza di una donna al volante con le 411 miglia percorse tra la sua Londra e la Liverpool città di origine della nonna materna. Nel 1907 registrò invece il primato sulla velocità con le 90.88 mph (146.26 km/h) sul chilometro lanciato e i primi successi all’estero con la cronoscalata di categoria a Gaillon (Francia) e l’interminabile (1.818 km) “Herkomer Trophy” in Germania a bordo di una “Napier” spinta da un sei cilindri a 60 CV.

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Però non soltanto automobile. Attratta fatalmente da tutto ciò che era velocità, la Levitt si cimentò con successo anche nella motonautica, dove stabilì il record mondiale sull’acqua (31.1 km/h, 1903, “Harmsworth Cup”, Irlanda) e poi si aggiudicò due competizioni in Francia e quella di Cowes, in Inghilterra, che le valse addirittura l’invito a bordo dello yacht reale di Edoardo VII per una giornata.

Successivamente, complice l’insorgere dei problemi di salute che l’avrebbero condotta a una prematura scomparsa nel 1922, lasciò le corse e iniziò a scrivere. Collaborò come giornalista con più testate, nelle quali si occupava ovviamente di motori, e nel 1909 scrisse il libro nel quale presentò l’idea che l’avrebbe resa celebre e che nel 1911 il pilota Ray Harroun, vincitore della prima edizione 500 miglia di Indianapolis, brevettò con successo sul celebre ovale, installandola sul cofano della sua vettura e acquisendo così un vantaggio determinante sulla concorrenza. Ma questa è un’altra storia.