Alla scoperta di Monza, il tempio iridato dei motori Ford

Che cos’è Monza? È il circuito preferito da Ford per salire in cima al mondo della Formula-1. Autentico totem del motorsport per la sua carta d’identità pressoché centenaria, fu costruito e inaugurato in poco più di cento giorni nel 1922 per volere dell’Automobile Club di Milano, il tracciato sede domenica 12 settembre della novantaduesima edizione del Gran Premio d’Italia ha un feeling speciale con l’Ovale Blu. Perché è il luogo dove i motori col suo nome, i celebri Ford Cosworth, hanno conquistato il maggior numero (sette) dei loro titoli iridati (ventitré) tra piloti e costruttori.

Simbolo di questa età dell’oro, compresa tra il 1969 e il 1978, è Jackie Stewart. Il corridore scozzese, anche consulente della casa di Detroit una volta ritiratosi, proprio sull’autodromo brianzolo si è consacrato alla storia dell’automobilismo. Nel 1969 cinse del primo alloro il suo casco e gli alettoni della tanto sconosciuta quanto inafferrabile Matra. Due anni più tardi vi arrivò fresco del bis, ma ancora affamato per regalare il numero uno anche alla sua monoposto, la Tyrrell. Con la quale nel 1973, sempre a queste latitudini, fu incoronato sovrano dei motori per la terza volta.

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Era una Formula-1 romantica. Chi guidava, era un cavaliere del rischio perché le vetture erano fragili e le piste pericolose. A Monza, tanto per fare un esempio, oltre l’asfalto c’erano gli alberi. Per vincere però non c’era sempre bisogno della meccanica migliore, perché era un’epoca dove l’uomo al volante faceva sempre la differenza. Come il brasiliano Emerson Fittipaldi che nel 1972, in questo tempio della velocità, tolse lo scettro dalle mani di Sir Jackie e con i suoi soli punti (61) consentì che il rombo degli otto cilindri Ford facesse da colonna sonora anche alla gioia della sua Lotus.   

Amaro invece l’ultimo acuto, quello di Mario Andretti su Lotus, 10 settembre 1978. A oscurarlo, la tragedia del suo compagno di squadra, lo svedese Ronnie Peterson, morto in ospedale dove era stato ricoverato per la frattura alle gambe rimediata in un incidente al via. Un dramma non episodico. Perché, oltre alla fama e alla gloria, la storia di Monza narra anche dolori.

Nel 1955, durante alcuni test privati, perse la vita Alberto Ascari, ultimo italiano campione del mondo. Uscì di strada all’allora curva del Vialone, successivamente tramutata nella variante che oggi porta il suo nome. Dopo di lui la sventura colpì l’austriaco Jochen Rindt (qualifiche del 1970) e il tedesco Wolfgang Von Trips, che perse il controllo della sua Ferrari prima della curva Parabolica, travolgendo quindici spettatori. Era il 1961 e fu l’ultima edizione sul circuito di dieci chilometri. Già, perché allora il gran premio si disputava su un percorso comprensivo della peculiarità di Monza: l’anello alta velocità, conosciuto anche come “sopraelevata”.

Un ovale lungo 4,2 km e formato da due rettilinei e altrettante curve con pendenze variabili tra il 13 e l’80%. Presente fin dalle origini per emulare Indianapolis e consentire alle case automobilistiche di collaudare i loro modelli al fine di migliorarne le prestazioni, voleva anche rappresentare il pensiero culturale del periodo: il Futurismo, l’uomo che corre veloce verso il domani e l’auto come simbolo di progresso. Nei fatti però quel catino fu teatro di disgrazie. Bastava una chiazza d’olio per sbandare con conseguenze inesorabili, tanto che altri piloti vi trovarono la morte negli anni Trenta.

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gt40-1968

Gli anni Settanta furono determinanti per la sicurezza con l’inserimento di tre varianti – Rettifilo, Roggia e la già citata Ascari – che comunque non ne hanno diminuito il fascino agli occhi degli appassionati. Tutt’altro. Lo hanno aumentato. Perché soltanto a Monza si tiene giù l’acceleratore per circa il 75% del giro. Quanto basta per scatenare adrenalina ed evocare un’atmosfera che la storia rende leggendaria.

Questa è la pista con la velocità media più alta della Formula-1 sia in qualifica – 264.363 km/h (Lewis Hamilton, Mercedes, 2020) – che in gara: 247.586 km/h (Michael Schumacher, Ferrari, 2003). Qui si sono corsi gli otto gran premi più veloci di sempre. L’ultimo, quello del 1971, registrò anche l’arrivo più ravvicinato: cinque piloti in sei decimi di secondo. E questo tracciato, terzo di sempre dopo Brooklands e Indianapolis per longevità, finora ha assegnato il maggior numero di titoli mondiali (ventuno).

Ford non poteva quindi scegliere ambientazione migliore per i suoi trionfi. Impreziositi anche dal successo (1968) nella “1000 km”, la gara di durata istituita a metà degli anni Sessanta, con David Hobbs e Paul Hawkins al volante della Ford GT40. La stessa che vinse la 24Ore di Le Mans e che è stata resa celebre sugli schermi dal film di James Mangold, “Le Mans ’66 – La grande sfida”.