Donne al volante: chi fu la prima in Italia?

Tra le pesanti ripercussioni sulla condizione delle donne afghane dopo il ritorno al potere dei Talebani potrebbe esserci anche la reintroduzione del divieto di guida. Un diritto conquistato a fatica nell’ultimo decennio, le cronache narrano come trecentocinquanta di loro avessero preso la patente nel 2017 nonostante forti ostracismi di natura sociale ed economica, ma comunque dall’alto valore simbolico. Basti pensare, infatti, che l’ultimo Paese del mondo ad aprire alle donne al volante è stata l’Arabia Saudita nel 2018.

Racconti di questa natura suscitano sconcerto, se si tiene conto della situazione nel resto del mondo. Soprattutto nell’emisfero occidentale. Dove la relazione tra le donne e l’automobile presenta una storia di ben altra natura, che affonda le sue radici alla fine del diciannovesimo secolo. Nel 1888 la tedesca Bertha Benz, moglie di Karl (considerato l’inventore dell’auto), fu la prima donna a compiere un viaggio sulla lunga distanza, percorrendo con i suoi bambini a bordo i cento chilometri che dividevano Mannheim da Pforzheim, due città della Germania sud-occidentale.

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Notevole sviluppo alle quattro ruote arrivò anche da Oltreoceano. A due donne statunitensi, Dorothy Levitt e June McCarroll, si devono rispettivamente altrettante invenzioni che hanno fatto la storia della mobilità stradale: lo specchietto retrovisore e la linea di mezzeria.

Anche l’Italia non è stata da meno nel dare il suo contributo. Nonostante una società patriarcale e la difficoltosa condizione sociale delle donne, che hanno avuto un tardivo riconoscimento di alcuni diritti come il voto (soltanto nel 1946 poterono esercitarlo per la prima volta alle elezioni politiche), l’inizio del Novecento vide due signore lasciare un segno indelebile negli annali dell’automobile al punto da contendersi, in epoca contemporanea, il titolo di prima patente rosa del nostro Paese. I loro nomi? Ernestina Prola e Francesca Mancusio Mirabile.

Originaria di Exilles, piccolo borgo della Val di Susa in provincia di Torino dove era nata nel 1876, e moglie di un ingegnere delle ferrovie, Ernestina Prola nel 1907 ottenne dalla Prefettura con il controllo del Genio Civile la “licenza per la conduzione di veicoli“, il documento indispensabile per poter guidare le poche vetture allora circolanti che era stato istituito con il regio decreto regio n. 416 del 28 luglio 1901. Appassionata di motori, si tramanda che abbia avuto anche una esperienza come pilota da corsa.

Il suo primato però è stato messo in discussione a metà degli anni Duemila dall’ACAIS (Associazione Cultori Auto di Interesse Storico) in favore di Francesca Mancusio Mirabile. Nata nel 1893 a Caronia, provincia di Messina, da una famiglia di ricchi possidenti terrieri, già per i sedici anni ricevette come regalo dal padre (cavalier Luigi Mancusio) una “Isotta Franchini”, una delle auto più prestigiose del tempo dal valore di 14.500 lire. E nel 1913 superò l’esame, che si svolse sul Monte Pellegrino, grazie al quale conseguì il “certificato di idoneità a condurre automobili con motore a scoppio“, che le fu rilasciato dalla Prefettura di Palermo.

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Era l’equivalente della patente di guida e questo particolare è stato alla base della discussione aperta dall’ACAIS. Secondo l’associazione quella della Prola era una licenza e prima di lei era stata presa, fra le altre, dalla principessa Carolina Cassini Sforza di Roma (1902) e dalla contessa Emma Corinaldi Treves di Padova (1903). Invece il documento della Mancusio, poi sposa dell’avvocato Ignazio Mirabile, è da considerarsi una vera e propria patente antenata delle odierne.

È però doveroso constatare il perfezionamento della norma in materia avvenuto con la legge nº 798 del 30 giugno 1912, cioè cinque anni dopo la licenza della Prola e uno prima di quella della Mancusio, che determinò le disposizioni sulla circolazione delle automobili e che per la prima volta parlò di “certificato di idoneità alla guida“.

Aldilà su chi sia l’effettiva detentrice di questo primato, ciò che più preme sottolineare è come, in un un’Italia che le relegava quotidianamente ai margini della vita quotidiana, ci siano state donne comunque in grado di dimostrare le loro qualità e le loro capacità.